Un viaggio attraverso “Out of me, inside you” con Francesca Sproccati ed Elena Boillat
A cura di Margherita Celestino,
fotografie di Lorenzo Gatto
Una novità di quest’anno al Festival Conformazioni è stata quella di aprire le porte alle residenze artistiche presso lo spazio Tavola Tonda ai Cantieri culturali della Zisa. Francesca Sproccati ed Elena Boillat sono state le prime ad usufruire di questa possibilità con il secondo studio di “Out of me, inside you”, nato in coproduzione con il FIT, Festival Internazionale del Teatro e della Scena Contemporanea. Al progetto collabora anche Adriano Irirti, musicista e compositore.
Corpo e installazione, come hanno iniziato a dialogare nel tuo lavoro?
Francesca: una delle grandi questioni è sempre stata se togliere il corpo e lavorare solo sull’installazione, oppure mantenerlo e capire quindi quale sia il suo ruolo. In questo lavoro il corpo è una figura che si prende cura di accompagnare e accogliere il pubblico all'interno di uno spazio quasi immobile. C’è una domanda per me molto forte: “come posso essere presente senza imporre la mia presenza?” È qui che si incontrano il linguaggio performativo e quello installativo.
Da dove è nata l’esigenza di questo lavoro? C’è un legame con la chiusura che ha portato la pandemia?
Francesca: Il lavoro era iniziato prima, ma dopo il lockdown era troppo riconducibile allo stato di chiusura che avevamo appena vissuto, questo mi ha messa in crisi: ho persino pensato di cambiare progetto, mi sembrava quasi un atto di violenza riportare le persone nella condizione di solitudine della pandemia. Poi, affrontando queste domande non tanto in sala, ma proprio nella vita, sono andata avanti. In realtà questa performance è nata da una ricerca precedente -iniziata dopo il lavoro sui salti (EXP: Je voudrais commencer par sauter)- dal titolo "Mein Vater Erzählt Mir Jeden Sonntag Unsere Neun Planeten". Lì incontro degli over 60, ne conosco le case e i ricordi, sulle note delle musiche che mi suggeriscono arrivo a ballare un lento con loro. Questi incontri erano spesso preceduti da giustificazioni e resistenze da parte loro ma poi, restando nel mio intento, è stato possibile stabilire un contatto e ne è nata una performance di 24 ore, dove io sono un’astronauta e attivo una stazione radiofonica da cui le persone possono entrare e uscire. Ho riportato la stessa idea in questo lavoro: ascoltare il silenzio, portare il vuoto attorno al corpo. La malinconia può essere un sentimento che dà accesso all’apertura, alla ferita, alla fragilità, quindi mi interessava indagarlo come possibilità di dar spazio ai sensi, connettendosi con il passato, il presente e il futuro contemporaneamente.
Come avete lavorato a livello spaziale su questo tema?
Francesca: All’ inizio in scena c'ero solo io; poi si è sembrato necessario avere dei prolungamenti del corpo (computer, musica, schermi). Per ultima ho sperimentato la zona della scrittura, un'area più interna e intima.
Elena: Francesca pensava di mettere il pubblico direttamente in scena, poi sì è rivelata importante la frontalità per l'osservatore come scelta di avere una rotta comune. Siamo tutti rivolti verso una stessa direzione e questo assetto si scontra con la macchina teatrale: la quarta parete e il pubblico in platea. Non è – come hai detto anche tu – un lavoro da vedere (nonostante l’impianto scenico sia visivo), ma un lavoro da percepire; per Francesca è una sfida attivare il travaso tra le persone che guardano e ciò che avviene sul palco.
Francesca: mi interessa che ci sia questo spostamento del pubblico da fuori a dentro, nonostante rimanga comunque spettatore.
Come lavorate insieme con Elena all’interno del processo creativo?
Francesca: Sono progetti che nascono da me e che poi condivido quasi totalmente con Elena. Nel lavoro sui salti tutta la drammaturgia è affiancata da Elena. Il percorso si fa insieme. In “Out of me inside you” c’è anche Adriano Iriti, musicista. Inizialmente avrei voluto anche lui in scena e pensavo ad un grande concerto, infatti lui ha composto 40 minuti di suoni, ma poi tutto si è concentrato in questi pochi accordi che abbiamo scelto come essenziali.
Come state vivendo questa residenza a Palermo? La città vi dà degli stimoli da utilizzare anche nel lavoro?
Francesca: Il fatto di essere in residenza dà molto valore ad un luogo. Siamo state tanto dentro la sala di Tavola Tonda, quindi non abbiamo visto tantissimo, ma già la possibilità di stare più a lungo in una città come Palermo è preziosa. Per me non avrebbe senso separare la vita e la scena, vanno proprio di pari passo. Non potrei dividere dal lavoro il fatto di parlare con te in questo momento, è importante tanto quanto fare le prove. Qui a Palermo c’è anche una facilità di scambio, un senso di apertura e di accoglienza che dà coraggio ad un lavoro come il nostro e lo supporta. Rispetto all'apporto al progetto, stando qui abbiamo fatto una piccola modifica: prima il testo era quasi trap/rap ed nato in inglese, mentre oggi lo abbiamo tradotto in italiano. La decisione è stata tra l’estetica dell’inglese e la necessità di arrivare a tutti, abbiamo scelto la seconda.
L’avete presentato già al pubblico?
Francesca: La prima volta lo abbiamo presentato perché è stato selezionato da un concorso in Svizzera (è stata una condivisione del processo creativo davanti a una rete di direttori di teatri per il Premio Schweitz); la settimana scorsa è stato presentato a Milano, al Festival Più che danza, anche lì sotto forma di studio.
sono dei pensieri, delle condizioni del corpo, degli stati che attraversi mentre sei in scena?
Francesca: Come performer ho già elaborato - in creazione e in prova- quello che cerco di restituire al pubblico, adesso voglio farlo attraversare più agli spettatori. C’è una trasformazione, nel senso che in questi 25 minuti il corpo tenta comunque di aprirsi; non vive degli stati d’animo ma, da dentro, è come se rilasciasse tensione tutto il tempo.
Elena: Pensando anche all’atmosfera che si viene a creare, abbiamo sempre avuto questa idea di scendere in profondità gradualmente. La ma
linconia richiede di andare giù, ma non nel senso di stato d’animo (“essere giù”). Una metafora che racconta questo lavoro è quella dell'iceberg: se ne vede la punta, ma è già tutto lì sotto. Non si lascia uno stato per passare ad un altro, ma ciò che è già presente si svela piano piano.
Francesca: rispetto a "Je voudrais commencer par sauter", qui il dispositivo è già costruito in modo da attuare una trasformazione. Il corpo lo ha già ideato prima, quindi lo contiene, ma il meccanismo non può funzionare senza di esso.
Come avete scelto il video che viene messo in loop sugli schermi?
Francesca: Abbiamo un enorme archivio di video. Dopo il lockdown ho detto ad Elena di aver bisogno di andare in uno dei posti in cui ci fosse più caos e calore possibile, quindi siamo andate a Napoli. Lì abbiamo fatto tantissimi video. Napoli è una città in cui si percepisce molto la relazione tra il luogo e le persone. Città e individuo non sono separati. Il video è casuale, è un telefono rimasto in tasca. Un errore da cui appare un piccolo scorcio di mondo.
Elena: Poi ad agosto siamo andate sullo Jungfrau, un ghiacciaio alto 3.500 metri. Lì ci siamo trovate immerse nel bianco, l’esatto opposto rispetto alla colorata Napoli. Dal caos del sud, all’altezza più alta che potevamo raggiungere in quel momento. Francesca si è messa a riprendere col cellulare ciò che aveva intorno, un paesaggio fermo. E' da qui che abbiamo scelto il bianco come elemento molto forte in scena.
È un video che da spettatrice mi ha dato la sensazione di essere accompagnata, forse proprio perché si sentivano dei passi. La scelta però avete detto che è stata casuale. Che ruolo ha il caso nel vostro processo creativo?
Per me il caso è saper riconoscere e istinto ad accogliere. Se hai un video così, di solito lo cancelli e basta. Abbiamo girato tutti i video, senza riguardarli subito. Abbiamo lasciato uno spazio tra quando la cosa accade e il dopo, questo ha fatto sì che il materiale non si consumasse.
In che modo, per voi, la malinconia può essere rivoluzionaria?
Francesca: Secondo me nel non consumare; nel portarsi dietro tutti i pezzi; nel planare tra passato, presente e futuro; nel non bruciare tutto; ma anche nell’esitare, rimanendo un passo indietro. La malinconia va contro la visione consumistica del “tutto e subito”, quindi penso che in questo senso possa essere rivoluzionaria. E poi nel sentire che non è uno stato d'animo immobile, ma un movimento che precede: un piccolo tirare indietro, ma per andare avanti. A volte può esserci il timore che sia un andare troppo in profondità, ma c’è tanta dolcezza che la caratterizza.
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